Artrite idiopatica giovanile: la storia di Giovanni
Nel contesto delle malattie reumatologiche, la transizione nella cura è un momento fondamentale e particolarmente delicato, trattandosi di patologie croniche. Il passaggio dalla “fase pediatrica” a quella adulta merita un’attenzione particolare: si tratta non solo di trasferire la responsabilità clinica tra gli specialisti, ma anche di accompagnare il paziente verso nuove responsabilità, in una fase della vita spesso caratterizzata da nuove sfide fisiche, emotive e sociali. Ad esempio, decidere il percorso di studi, iniziare un lavoro, creare una famiglia, sono tutti elementi che possono incidere molto dal punto di vista personale e, quando sono associati a un’esperienza di malattia cronica, rendono ancora più complessa la situazione.
Quella che segue è la storia di Giovanni, giovane ingegnere elettronico e coordinatore di ANMAR Young, che convive con una patologia reumatologica da quando era bambino.
Grazie, Giovanni, per aver condiviso con noi la tua esperienza e le tue riflessioni, saranno un prezioso aiuto per molte persone che si trovano ad affrontare il momento della transizione nella cura personalmente o accanto a un familiare.
Il primo incontro con la reumatologa: in pronto soccorso
Sono Giovanni, ho una malattia reumatica che si chiama artrite idiopatica giovanile diagnosticata nel 2000, quando avevo circa 4 anni. Non ricordo il momento della diagnosi, mi è stata raccontata dai miei genitori. È arrivata dopo un periodo di malessere generale e di febbri durati circa un anno, per le quali si è reso necessario più volte andare in pronto soccorso.
Una di queste volte ho avuto la fortuna di incontrare una reumatologa, che ha ipotizzato che si potesse trattare di una malattia reumatica. Può sembrare strano, ma mi sento di dire che è stata una fortuna, perché per molte persone il percorso verso la diagnosi è molto lungo e complicato, in parte perché i sintomi sono difficili da individuare, soprattutto nei bambini piccoli.
La diagnosi
Dopo una serie di esami è arrivata la diagnosi di malattia, che, nel mio caso, fino a quel momento si era manifestata sotto forma di episodi febbrili.
Qualche anno dopo, avevo circa 10 anni, la malattia si è manifestata con una serie di episodi infiammatori molto severi, pericardite e pleurite e dall’ospedale in cui ero in cura sono stato trasferito in una struttura che è un centro di eccellenza regionale per le malattie croniche infantili, dove ero seguito dal reparto di reumatologia.
Il mio percorso terapeutico allora prevedeva esami e visite in sessioni in Day Hospital, una ogni 3-4 settimane, un tempo in cui il tuo specialista di riferimento diventa una persona cara, in un certo senso.
Il momento del passaggio
Il mio passaggio vero e proprio è avvenuto fra la quinta superiore e il primo anno di università, avevo circa 18 anni e me lo ricordo come molto semplice. Eravamo io, i miei genitori, la reumatologa che mi aveva seguito fino a quel momento e altri medici, che hanno stilato un report molto dettagliato della mia storia clinica. Anche in questo frangente sono stato fortunato perché il passaggio “operativo” è stato gestito internamente, senza dover passare dal centro prenotazioni. Pensavo fosse tutto a posto così, e che tutto continuasse come prima, in realtà mi sono reso conto dopo che è mancata la continuità, il passaggio dal reparto di pediatria a reparto di reumatologia degli adulti.
Col tempo capisci che la transizione in realtà non ha poi un termine preciso, ogni volta si riprendono in mano tutti i referti, si ricomincia daccapo, in un certo senso.
Però c’è un momento in cui prendere atto del passaggio, per esempio il cambio della struttura, e questo ha un impatto anche emotivo, perché ti allontana dal Medico che ti ha seguito direttamente per anni e ti affida a un team, non hai più una persona unica di riferimento.
Quando sei piccolo hai comunque vicino i tuoi genitori, che sono un tramite e una protezione e sono loro che decidono per te.
La prima visita da adulto
Il giorno della prima visita “da adulto” mi sono ritrovato di fatto da solo. Mi sono presentato senza esami del sangue, perché ero abituato al Day Hospital e a fare tutto lo stesso giorno, sempre con lo stesso medico. Ora invece era tutto diverso, dovevo portare io gli esami, fatti con anticipo su prescrizione del medico di base, e avrei scoperto il giorno della visita chi mi avrebbe preso in carico. E io non lo sapevo. In seguito, ho imparato a gestirmi, ma senz’altro sarebbe stato utile un incontro congiunto tra medici, invece mi sono trovato a “raccontarmi”, seguendo la documentazione. Lo ricordo come un momento “dispersivo”, in cui mi sono sentito solo.
Le differenze
Nel tempo i miei controlli si sono diradati e ora vado ogni 6-12 mesi. La differenza sostanziale è che invece di avere un unico medico di riferimento, cosa emotivamente molto rassicurante, si ha un team di medici che si alternano. Sicuramente anche la mia reumatologa pediatrica faceva parte di un team, ma l’impressione era quella di avere un medico che sapeva tutto di me, della mia malattia. E poi, quando sei adulto ti rendi conto di quanto sia importante che ci sia una sala d’attesa con i giochi e i Topolino da leggere, mentre i genitori parlano con i medici e le infermiere. Le visite, quando sei piccolo, sono necessariamente più frequenti, perché il monitoraggio della terapia in una fase di crescita è diverso rispetto a quando sei adulto.
Ora come stai?
Ora la mia patologia è in remissione, non assumo farmaci; perciò, i miei tempi di cura sono cambiati ancora.
Quando viene dichiarata la fase di remissione significa che le terapie sono state efficaci e gli elementi di infiammazione associati alla malattia sono sotto controllo. Questo non significa guarigione, bisogna comunque monitorare con regolarità i parametri, ma con una frequenza diversa, almeno così è nel mio caso. Per anni ho assunto metotrexate e cortisonici, anche il periodo di scalaggio dei farmaci è stato lungo.
In questa fase di remissione sto anche facendo degli approfondimenti di esami che erano già stati presi in considerazione quando ero bambino, ad esempio delle analisi del DNA o degli esami del sangue per capire se ho la febbre mediterranea, in un certo senso sono in un nuovo periodo di diagnosi, in transizione.
Quali sono i tuoi suggerimenti per un giovane che sta affrontando la transition?
Anzitutto, fare tesoro del supporto della propria famiglia, oltre a quello del medico. Naturalmente dipende da individuo a individuo, ma suggerisco di andare alle visite sempre accompagnati anche da un adulto, in modo da poter contare non solo sui propri ricordi ma anche mantenere una continuità o anche solo un altro punto di vista per un confronto. Ad esempio, nel mio caso io non ricordo un “prima” della malattia: la mia diagnosi è arrivata in età molto giovane, per me le visite erano una routine, facevano parte del quotidiano, non avevo gli strumenti intellettuali per comprendere appieno il significato di quegli appuntamenti.
Inoltre, è fondamentale affrontare il tema e parlarne con il medico, anche con il medico di famiglia, ampiamente e liberamente, creare una relazione. Ognuno vive l’esperienza di malattia a modo suo, ma se si crea un dialogo, una relazione con il medico, nel corso del tempo si può parlare della malattia anche al di fuori dal contesto clinico. Ad esempio, chiedendo un consiglio su come interagire con un nuovo specialista in caso di trasferimento in un’altra città o all’estero.
Sapere quali sono gli elementi essenziali da fornire al nuovo specialista oltre alla cartella clinica è fondamentale ai fini della continuità della terapia.
Infine, è utile valutare un supporto psicologico in occasione della transition, soprattutto da pediatria ad adulto. In molti casi la terapia viene mantenuta intatta, mentre il medico cambia e ci si trova a non avere più quel rapporto di fiducia che dava serenità. Non tutti hanno la fortuna di avere attorno una solida rete di affetti su cui contare, a volte un supporto può essere davvero di grande aiuto, per affrontare nel migliore dei modi un momento che può essere molto complicato dal punto di vista emotivo.