Imparare a dire no: la storia di Giulia

Di Maria Beatrice Toro

Una delle conseguenze più comuni della convivenza con una malattia cronica è la sensazione di stanchezza fisica e mentale. Oltre alla patologia, spesso le terapie hanno effetti collaterali che non consentono di sentirsi in forma e, altrettanto spesso, il pensiero di dover affrontare accertamenti e visite mediche è di per sé stancante. Non tutti convivono in modo sereno con la stanchezza: per alcune persone essa è il fattore più pesante dell’intera esperienza di malattia.

La storia di Giulia

Giulia è una donna di 35 anni e convive con una malattia autoimmune praticamente da sempre. Tale condizione non le ha impedito di realizzarsi professionalmente a livelli molto elevati; ha scelto di non avere un secondo figlio a causa di una sensazione di stanchezza costante che le aveva reso particolarmente difficili i primi mesi di vita del primogenito Filippo. Oggi non se la sente di affrontare notti insonni e il doppio carico del lavoro e dell’accudimento. E’ una decisione presa consapevolmente, di concerto con il marito.

Ora che il piccolo Filippo frequenta la scuola elementare, Giulia si aspettava di “smaltire” la fatica accumulata e di poter lavorare con più energia e grinta. Purtroppo questa aspettativa è stata pesantemente ridimensionata da quella che è la realtà dei fatti: pur lavorando in part time si ritrova sempre esausta e, sinceramente, fa fatica a vivere così. Per non far notare la sua stanchezza, non dice mai di no, ma, poi, di fatto, non riesce a portare a termine i troppi impegni di cui si fa carico. Non è la vita che vuole, non rende come vorrebbe e, quel che è peggio, viene criticata da alcuni colleghi, che dubitano che lei stia davvero male come dice.

Quante di voi si riconoscono in questa storia?

A giudicare da quante persone mi chiedono aiuto perché sono stanche e si sentono malviste per questo sintomo, non siete in poche… Il punto è che certe condizioni patologiche non sono visibili e si rischia di essere vittime del pregiudizio che, con un po’ di buona volontà, si potrebbe fare tutto quello che fanno gli altri. A forza di sentirselo dire, si può arrivare a dubitare di se stesse e autoconvincersi che sforzandosi al massimo si possa riuscire a vivere in modo molto più attivo di quanto non si riesca a fare.

La realtà è che può capitare, magari per un periodo, si non poter essere efficienti come si vorrebbe e che la cosa più sensata, in questi casi, è quella di dichiarare chiaramente la propria condizione per non ricevere richieste insostenibili.

Perché, allora, è così difficile dire qualche no?

Una delle ragioni principali risiede nel meccanismo difensivo della negazione, che si attiva nella maggior parte dei casi nei primi mesi (o anche uno o due anni) dopo il momento della diagnosi, per poi essere gradualmente superato.

Nel caso di Giulia, probabilmente si è riattivato poiché ha attribuito la sua stanchezza agli impegni intensi della maternità e si aspettava, una volta che Filippo fosse cresciuto, di ritrovarsi piena di energie, cosa che poi si è rivelata illusoria. Cerchiamo, allora di evitare di avere aspettative irrealistiche: il prezzo che si deve pagare quando, poi, ci si confronta con la realtà è pesantissimo.

Se si soffre per una patologia cronica, non si è meno degni di stima e accettazione ed anzi, se lo comunichiamo correttamente, possiamo ottenere il rispetto degli altri. Il mio invito è trovare il coraggio di dire qualche no, quando non ce la si fa.  

Se, poi, qualche collega ritiene opportuno di fare pettegolezzi insinuando che sia questione di pigrizia o si usi la propria condizione come scusa, è giusto essere molto chiari e fermi, magari con l’appoggio di chi, al contrario, comprende pienamente. Si può, infatti, essere chiari senza diventare sgradevoli o aggressivi, ma il messaggio da passare deve arrivare forte e chiaro: la malattia non è una colpa.

 

N.B.: Quella di Giulia è una storia vera, ma i nomi dei protagonisti sono stati modificati, a tutela della loro privacy

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